Ma quanto sono strani in questo posto…

Nel momento in cui dovessimo entrare a far parte di una nuova organizzazione, o se dovessimo trovarci, per qualsiasi motivo, ad osservarla dall’esterno, noteremmo subito dei comportamenti che ci potrebbero disorientare, divertire, irritare o addirittura incuriosire.

In poche parole sembrarci strani.

Lo sbigottimento è destinato a scemare man mano che il tempo passa, nel momento in cui, con estrema naturalezza, riuscissimo ad assimilare la cultura aziendale e ad adeguarci ad essa.

Ogni organizzazione infatti è caratterizzata da una sua cultura, molto specifica e molto privata.

Cultura aziendale
Hats by Pixabay.com

Ma cos’è una cultura aziendale?

Le definizioni sono tante ma, nella sostanza, non molto diverse fra loro:

Un modo di pensare e di fare le cose.
(E. Jacques 1952)


Uno schema di assunti fondamentali che un gruppo ha inventato per affrontare e risolvere i problemi ….. assunti che sono ritenuti validi e quindi degni di essere insegnati ai nuovi membri.
(Schein 1985)


Le conoscenze che i membri di un certo gruppo condividono in misura maggiore o minore.
(Maanen 1988)

La cultura aziendale è un insieme di regole più o meno scritte, di modi di fare, di espressioni che vengono preferite al posto di altre, di miti che vengono trasmessi dai veterani ai nuovi arrivati.

Non è visibile di per sé, se si escludono gli artefatti (ad es. lo stile degli ambienti fisici come i colori, l’organizzazione degli spazi ecc.), ma si manifesta tramite il linguaggio ed il comportamento delle persone; per i nuovi membri, i princìpi insiti nella cultura aziendale vengono presentati come la meta alla quale tendere per appartenere realmente a quel contesto sociale.

E sappiamo bene quanto il senso di appartenenza sia fondamentale per lavorare bene, per sentirsi tranquilli.

Si tratta del lato psicologico dell’ingresso in un gruppo. È un bisogno naturale e per soddisfarlo dobbiamo adeguarci alle regole, ai princìpi, ai valori e ai comportamenti condivisi, tutti elementi della cultura aziendale. Allinearsi ad essa riduce l’ansia, riconduce tutto a situazioni comprensibili e gestibili, aumenta il senso di coesione.

D’altronde, quando entriamo in una nuova organizzazione, il nostro comportamento dovrebbe essere quello che adotteremmo entrando in casa d’altri, ossia di profondo rispetto delle regole. Saremmo pur disposti a metterci le pattine se ci venisse richiesto.

E se fossimo, per principio, contrari alle pattine e avessimo già condotto le nostre personalissime battaglie per tentare di eliminarle dal mercato?

Riflettiamo un attimo su come viene formata una cultura aziendale.
Essa ha origine internamente all’organizzazione e deriva soprattutto dal comportamento del top management. Ma è anche influenzata dai valori e dalle consuetudini che sono tipici dell’ambiente sociale in cui l’azienda è inserita; quest’ultimo permea tramite il bagaglio di esperienze passate e di convinzioni personali di ogni lavoratore, tramite le leggi, l’etica e i principi morali tipici della nazione in cui l’azienda opera.

Sappiamo inoltre che il nostro comportamento ed il nostro giudizio sono modellati da tutti i contesti in cui siamo, o siamo stati, inseriti: la famiglia, la scuola, la comunità, la religione, la politica, il circolo sportivo eccetera. Se ci pensate bene, ogni ambiente, oltre ad influenzarci, può essere influenzato da noi: è ovvio che ognuno di noi abbia, almeno una volta, agito in modo da rendere un contesto più vivibile, perlomeno dal proprio punto di vista. Dipende ovviamente da quanto siamo capaci di essere incisivi nel modificare lo status quo. E da quanto siamo determinati a farlo.

La cultura aziendale non è esente da questa reciproca influenza. È ovviamente in grado di condizionarci, sempre che esprima princìpi in linea con i nostri. Ma ci lascia anche la libertà di agire, qualora sentissimo il bisogno di creare piccole oasi nelle quali rifugiarci.

Non è insolito trovare delle sottoculture all’interno delle aziende, ossia culture che si sviluppano fra persone che hanno caratteristiche in comune.

Ad esempio l’appartenenza alla stessa unità organizzativa, o la condivisione dello stesso obiettivo (come lavorare presso lo stesso cliente), o del medesimo interesse (come praticare uno specifico sport insieme).

Le sottoculture non vanno necessariamente contro la cultura dominante, ma possono avere princìpi in grado di coesistere con gli altri. La convivenza di diverse sottoculture può essere incoraggiata dall’azienda, quando è disposta a riconoscerne la forza creativa. Essa verrà però osteggiata se una delle sottoculture dovesse risultare di impedimento alla formazione di un clima adeguatamente collaborativo. Ciò è necessario al raggiungimento degli scopi aziendali.

Un esempio famoso di sottocultura creativa è quella che John De Lorean introdusse nella linea produttiva della General Motors, prima di uscirne per creare la propria casa automobilistica. L’originalità fu tollerata dalla dirigenza sia grazie alla personalità di De Lorean, che lo rendeva molto popolare, sia grazie alla consapevolezza che il profitto non ne avrebbe risentito. Au contraire…

Bibliografia:

Mary Jo Hatch, “Teoria dell’organizzazione”, Terza edizione 2013, casa ed. Il Mulino

Francesco Avallone, “Psicologia del lavoro e delle organizzazioni”, 2011, Carocci editore.

Noia al lavoro

Curiosando in giro per il web, sempre in cerca di articoli sulla psicologia, ahimè in inglese, mi sono imbattuta nella sindrome da boreout, della quale non conoscevo l’esistenza.

Ne sono stata felice, perché grazie all’approfondimento che ho fatto su questo tema sono riuscita a dare un pieno significato alla frase

Mi pagano troppo per quello che faccio, troppo poco per quanto mi annoio.

Daniel Pennac, Il paradiso degli orchi

Una frase pronunciata dal mio personaggio preferito, Benjanin Malaussène, che di mestiere fa il capro espiatorio in un grande magazzino.

La frase mi ha colpita quando l’ho letta e mi si è fissata in memoria. Forse perché la considero veramente sagace.

È difficile parlare di quanto ci si riesca ad annoiare sul posto di lavoro. Anche se sembra che sia un fardello che molte persone sono costrette a portare, una condizione tanto pesante da meritare, secondo l’acuto Malaussène, un indennizzo.

Ma perché si parla di sindrome da noia?

È normale pensare, ad esempio, che chi non ha niente da fare si annoi. È questo?

Forse, in parte, ma temo che sia un pelino più complicato di così.

Il termine “boreout” è stato introdotto nel 2008 da Rothlin and Werder (rispettivamente un project manager e un consulente d’azienda), con il libro “Boreout!: Overcoming Workplace Demotivation”.

Il termine si riferisce ad uno stato emotivo negativo, provato da alcune persone sul posto di lavoro. Questo stato principalmente ha a che fare con un giudizio negativo che la persona attribuisce alle attività che deve svolgere. Che possono essere giudicate noiose, prive di significato o monotone, sicuramente non coinvolgenti o sfidanti, inadeguate alle proprie capacità, insufficienti nel numero.

Sindrome da boreout
Da pixabay.com

Questa situazione, se protratta nel tempo, può portare ad una diminuzione dell’interesse per il proprio lavoro, la propria carriera e l’organizzazione di appartenenza. E la diminuzione di interesse può portare ad una progressiva e sempre maggiore mancanza di risorse da investire nel proprio lavoro.

La noia provata sul lavoro sembra non dipendere solo dal tipo di attività da svolgere, comunque giudicata svilente dalla persona, ma anche dal confronto con le attività assegnate ai colleghi. Che potrebbero essere giudicate più importanti o interessanti. In questa situazione è facile che ci si vergogni e che si tenda a non far emergere il problema. E che ci si senta anche colpevoli, credendo di meritare tutto quello che sta succedendo.

Specialmente quando la relazione con i propri superiori, o con i propri pari, non è poi così buona.

La boreout syndrome non è da sottovalutare perché potrebbe causare stati d’ansia, distress (lo stress negativo) e buttare giù il morale e le energie. E potrebbe farci sentire anche arrabbiati, turbati e nervosi.

Come si può evitare questo problema?

Intervenendo a livello organizzativo, con qualche accorgimento:

Ogni singola persona dovrebbe essere considerata per le capacità e la disponibilità che può offrire.
Si dovrebbe riflettere su una più equa distribuzione dei compiti noiosi e ripetitivi, così come delle responsabilità.
Bisognerebbe prevedere una rotazione degli incarichi e dei ruoli.
In poche parole, si dovrebbe pensare a rendere il lavoro e l’ambiente relazionale più vario, rivedendo, in modo critico, il metodo adottato per l’assegnazione dei compiti.

Questi accorgimenti appena elencati sono frutto solo del buon senso, purtroppo non ho trovato studi che supportino nessuna delle soluzioni che ho proposto.

Mentre per la prima parte ho preso come riferimento questo studio:
https://www.frontiersin.org/articles/10.3389/fpsyg.2021.697972/full

E’ tempo di cambiamenti – 4

Vi starete sicuramente chiedendo…

Quando parlo di inserimento della figura dello psicologo nei progetti, cosa intendo, di preciso?

All’atto pratico, cosa dovrebbe fare lo psicologo?

E … come si dovrebbe misurare il contributo dell’attività di uno psicologo al progetto, ossia come si può capire se ha fatto bene o ha fatto male, o se il suo coinvolgimento nel progetto non sia stato completamente ininfluente?

La risposta non è semplice … ma iniziamo dal principio.

Psicologo misurare progetto

Cosa si intende per intervento di counselling

Preferisco non avventurarmi in una mia definizione e riportare invece quella contenuta nel documento “Atti tipici e riservati della professione psicologica: la competenza del counseling“, redatto dal Consiglio Nazione dell’Ordine degli Psicologi. In questo estratto viene fornita una descrizione delle attività che rientrano nella consulenza psicologica (o counseling (inglese americano) o counselling (inglese inglese)).


L’attività di counseling include tutte le attività caratterizzanti la professione psicologica, e cioè l’ascolto, la definizione del problema, la valutazione e l’empowerment, necessari ad un’eventuale formulazione diagnostica.

È possibile individuare “una motivazione centrale rintracciabile alla base di qualsivoglia domanda di intervento psicologico […]”2. Tale motivazione scaturisce da una “crisi di decisionalità”3 dal momento che chi si rivolge allo psicologo per una consulenza psicologica, sia esso individuo, coppia od organizzazione, “avverte, anche se spesso in maniera confusa e imprecisa, una sorta di discontinuità tra la propria capacità di agire per il raggiungimento di un obiettivo e tale obiettivo, ovvero lo scopo verso il quale l’azione è diretta” (ibidem).

In tal senso è possibile affermare che “lo psicologo è chiamato a occuparsi di sistemi in crisi di decisionalità e possiamo quindi riconoscere la sua funziona professionale: quella di incrementare la capacità decisionale del suo utente” (ibidem).

Lo scopo è quello di sostenere, motivare, abilitare o riabilitare il soggetto, all’interno della propria rete affettiva, relazionale e valoriale, al fine anche di esplorare difficoltà relative a processi evolutivi o involutivi, fasi di transizione e stati di crisi anche legati ai cicli di vita, rinforzando la capacità di scelta, di problem solving o di cambiamento.

(…)

Per compiere un atto professionale responsabile, sicuro ed etico, è necessario che il professionista sia in grado di verificare a quale “domanda psicologica” corrisponde la “richiesta esplicita” del cliente, di valutare lo stato attuale e prospettico della situazione psicologica personale dell’utente (…), collegarla alle dinamiche relazionali e contestuali nelle quali è inserita, proporla in maniera scientificamente coerente e infine, valutarne gli esiti in modo appropriato, ed eventualmente individuare gli adattamenti necessari per garantire al meglio il benessere psicofisico dell’individuo.

2 Grasso M., Cordella B., Pennella A.R. (2003), L’intervento in psicologia clinica, Carocci, Roma, p.151
3 Grasso, M., & Salvatore, S. (1993). La capacità decisionale come prodotto della psicologia clinica.


Detto ciò, cosa si intende per counselling di progetto?

L’applicazione delle attività sopra illustrate al contesto del progetto e in modo tale che siano in sincronia con suoi processi1.

Questa definizione dice tutto e niente, però credo che al momento sia sufficiente, perché l’argomento è articolato. Inoltre ho scelto di fornire solo la definizione standard di consulenza psicologica perché penso che sia utile ad innescare le opportune riflessioni in chi abbia voglia di cercare dei punti di contatto con i processi di project management.

Ho comunque intenzione di fare un approfondimento in un articolo successivo.

Quindi, fermo restando…

che l’intervento di counselling si sostanzia in quanto detto prima;

che i comuni prerequisiti per la buona riuscita di un intervento di counselling sono i seguenti: la credibilità professionale dello psicologo, che deriva dalla sua formazione ed esperienza, e la convinzione da parte del cliente di voler intervenire su determinate problematiche2

arriviamo a come valutare l’efficacia di un intervento di counseling.

Diciamo che un indicatore sintetico che misuri l’andamento globale del progetto può costituire un primo elemento di valutazione, ma è pur vero che l’esito di un progetto dipende da tantissimi fattori, ed individuarne il singolo contributo può essere piuttosto difficile.

E allora?

Ogni intervento di counselling inizia con la definizione di un obiettivo, all’interno del quale possono essere individuate alcune variabili psicologiche. Quasi ogni variabile psicologica è misurabile tramite l’utilizzo degli opportuni test psicoattitudinali. I test devono essere compilati prima e dopo l’intervento, in modo da rilevare un’eventuale differenza nei risultati. La differenza fra i due risultati fornisce un’indicazione sulla validità dell’intervento di counselling.

Inoltre Greif2 suggerisce di misurare anche le variabili globali.

Come, ad esempio: l’atteggiamento delle persone verso il progetto, la percezione del livello di benessere lavorativo, la soddisfazione del cliente riguardo l’andamento del progetto e il grado di raggiungimento dell’obiettivo.

Misurare le variabili globali significa avventurarsi in un terreno misto, formato da variabili psicologiche e da variabili tecniche connesse al progetto. Però nulla è impossibile e si potrebbe, in mancanza di meglio, procedere artigianalmente: per valutare la soddisfazione del cliente, ad esempio, potrei realizzare un questionario ad hoc e tentare, così, di separare gli effetti connessi alla gestione tecnica del progetto, come il rispetto delle tempistiche e dei costi, dagli effetti dell’intervento psicologico, come il miglioramento del clima lavorativo e l’aumento delle competenze relazionali.

Credo che la valutazione dell’intervento di couselling sia un argomento piuttosto sentito. I costi da sostenere per un supporto del genere rientrerebbero in quelli del progetto e bisogna capire se “il gioco vale la candela”.

Quindi anche questo tema sicuramente merita degli approfondimenti.

Ma qual è la figura professionale che dovrebbe fare la valutazione dell’efficacia dell’intervento di counselling?

Beh, lo psicologo.

Lo stesso di prima?

Lo stesso di prima.

Ah, ecco!

1 Springer.com/

2 “Advances research in coaching outcome” di Siegfried Greif, pubblicata dalla rivista “International Coaching Psychology Review”, Vol. 2 No. 3 November 2007, The British Psychological Society – ISSN: 1750-2764.

È tempo di cambiamenti – 3

Questo è il terzo articolo sull’intreccio fra la psicologia e la gestione dei progetti.

Cosa si trovano a dover affrontare gli stakeholder quando sono coinvolti in un progetto?

Oltre a tutte le incombenze di tipo tecnico, intendo…

È sempre tutto rose e fiori?

Ovviamente no.

Proviamo a fare qualche considerazione.

Psicologia di processi - problemi relazionali nei progetti? Project Management

Il gruppo di progetto

Partiamo dal gruppo di progetto, ossia il gruppo di lavoro che viene costituito per occuparsi di un determinato progetto. Il gruppo di progetto è un gruppo temporaneo; questo significa che esiste un momento in cui viene costituito ed un momento futuro in cui verrà sciolto.

A dire il vero, sulla temporaneità di alcuni gruppi di progetto italiani avrei qualche dubbio. Per salvare capra e cavoli, diciamo che anche progetti dalla ventennale durata possono essere considerati temporanei. 

Nel momento in cui viene costituito il gruppo, persone che hanno già lavorato insieme e persone che non si conoscono fra loro si uniscono: ne risulta, di frequente, un gruppo disomogeneo per storia lavorativa e conoscenze pregresse. Alle storie diverse spesso si unisce anche l’appartenenza a culture diverse, non intendo dire sociali, ma aziendali. Perché un gruppo può essere costituito da persone che provengono da vari dipartimenti della stessa azienda, da aziende diverse oppure, più comunemente, da differenti sottoculture aziendali.

Parte della forza di un gruppo di lavoro si deve soprattutto a questo, alla coesistenza di diverse culture e conoscenze.

Ma può costituire anche un ostacolo.

Perché, oltre ad affrontare compiti nuovi e problemi sconosciuti relativi al nuovo progetto, i singoli componenti del gruppo di lavoro si trovano a confrontarsi con un gruppo anch’esso nuovo e sconosciuto.

E a dover trovare una strada per lavorare bene insieme.

Questo è un fattore che, già da solo, sarebbe sufficiente per far aumentare il livello di distress nelle persone.

Inoltre, se ci aggiungessimo anche un governo del gruppo carente, che si manifesta con una definizione dei ruoli e delle responsabilità non così cristallina, avremmo come risultato un gruppo che potrebbe andare incontro a delle grandi difficoltà relazionali.

Tutto questo senza parlare di temi più sofisticati come la polarizzazione del pensiero di gruppo e la scorretta circolazione delle informazioni, problemi che si riscontrano con una certa frequenza nei gruppi di lavoro.

Dato che il gruppo di lavoro è uno degli elementi chiave per il successo di un progetto, forse sarebbe il caso di attrezzarsi per fare in modo che le singole persone riescano a concentrarsi sui loro compiti tecnici, senza che siano costrette a impegnarsi nella gestione di conflitti più o meno manifesti.

Il Project Manager

Se lo è il gruppo di progetto, di conseguenza anche il ruolo del Project Manager è temporaneo. E anche questa persona si trova a doversi relazionare con un gruppo di lavoro sconosciuto.

Prova a farti una domanda e a rispondere sulla base della tua esperienza: quante sono le abilità richieste al/alla Project Manager dal suo ruolo?

Oltre alle abilità puramente tecniche, che gli permettono la gestione ed il controllo del progetto, questa persona deve barcamenarsi fra diverse altre problematiche collegate alla presenza degli stakeholder.

Faccio qualche esempio tratto da uno dei libri che ho letto sull’argomento.

Un buon manager dovrebbe essere consapevole che ogni stakeholder ha delle aspettative dal progetto; dovrebbe fare in modo di venirne a conoscenza e poi tenerle in dovuta considerazione.

Una buona manager dovrebbe riconoscere i conflitti e saperli gestire in modo tale che tutti ne traggano beneficio.

Deve essere trasparente.

Essere in grado di costruire un gruppo coeso e basato sulla fiducia reciproca.

Deve saper delegare.

Lavorare in modo da creare un ambiente aperto ed inclusivo.

Attuare uno stile di leadership adeguato al contesto.

Le abilità necessarie per gestire questi aspetti non si improvvisano, ma vanno sviluppate nel tempo; perché il presupposto di queste abilità è che una persona sia in grado di comprendere il proprio comportamento e quello degli altri e di intervenire in modo adeguato.

Però mi sorge un dubbio:

Se provassi ad analizzare il mio trascorso da Project Manager, capirei di avere, necessariamente, dedicato l’80% del mio tempo a gestire gli aspetti tecnici di un progetto ed il rimanente 20% a relazionarmi con gli stakeholder più importanti.

Come potrei aver trovato il tempo per acquisire le capacità necessarie per essere così … in gamba? Giusta? Equilibrata? Abile?

Gli altri stakeholder

Tutti gli stakeholder sono importanti e vanno tenuti nella dovuta considerazione, anche perché molti di loro sono particolarmente influenti per il progetto. Purtroppo, non tutti gli stakeholder hanno un’idea della complessità gestionale di un progetto. Questo può indurli ad assumere comportamenti inadeguati con una certa superficialità, come comunicare continui ripensamenti o esprimere opinioni non opportune, cose che non agevolano di certo la creazione di un clima disteso all’interno del progetto.

E l‘armonizzazione dei rapporti fra gli stakeholder è un altro onere a carico del Project Manager e del gruppo di lavoro.

Nel prossimo articolo ti illustrerò come uno psicologo potrebbe essere di supporto in questi frangenti.

Vi lascio con questa storiella che a me piace molto.

The Body family

In the area of roles and responsibilities, there’s a story about four people named Everybody, Somebody, Anybody and Nobody. There was an important job to be done and Everybody was sure that Somebody would do it. Anybody could have done it, but Nobody did. Somebody got angry about that, because it was Everybody’s job. Everybody thought Anybody could do it, but Nobody realised that Everybody wouldn’t do it. It ended up that Everybody blamed Somebody when Nobody did what Anybody could have done.

Author unknown

https://www.springer.com/series/10101

E’ tempo di cambiamenti – 2

Che se ne fa il Project Management di uno psicologo?
Altro appuntamento con questa domanda e questo tema ampissimo.

Le dinamiche nel gruppo di lavoro Project Management

Quando ho iniziato a leggere alcuni articoli su questo argomento, mi è tornato in mente un libro sulla psicologia di comunità, che avevo letto ai tempi dell’università. La psicologia di comunità è un ramo della psicologia che si occupa dell’analisi dei problemi e della ricerca di soluzioni all’interno delle piccole comunità locali, come, ad es., i quartieri di una città, i piccoli centri di campagna, ma anche nelle istituzioni come scuole e ospedali.

La psicologia di comunità opera tramite gli interventi. Qualsiasi sia la tecnica utilizzata, come la ricerca-azione partecipata, i principi che guidano questi interventi sono comuni: gli psicologi “…si rivolgono ai membri della comunità offrendo loro la garanzia che avranno la possibilità di costruire il loro futuro attraverso la produzione di conoscenza e la realizzazione di alternative per la loro storia quotidiana. Ne deriva una sorta di lavoro collettivo, condotto con la collaborazione dei gruppi, orientato all’identificazione dei bisogni e delle domande condivise nella collettività. Ne segue che colui che fa ricerca o intervento analizza, rivede ed adatta continuamente le proprie conoscenze, in relazione alla dinamica della vita di comunità; accetta la possibilità di modificare il proprio agire; mette in discussione la validità del proprio lavoro e la sottopone alla valutazione del gruppo”.

Per come la vedo io, anche se il passaggio sopra riportato riguarda la psicologia di comunità e non quella delle organizzazioni, mi sembra che riesca a descrivere bene quello che potrebbe essere il contributo di uno psicologo al lavoro quotidiano di un gruppo di progetto.

Prendendo, però, come riferimento, valori leggermente diversi.

La psicologia di comunità si occupa di diritti, condanna ogni forma di oppressione ed esclusione sociale, sostiene una distribuzione equa delle risorse, promuove la solidarietà fra gli individui, la loro emancipazione, liberazione ed autonomia.

Invece,

l’obiettivo dell’intervento per un gruppo di progetto, pur non trascurando i sopracitati valori, dovrebbe focalizzarsi, primariamente, sulla re-interpretazione delle dinamiche relazionali interne al gruppo. Continuando a basarsi sugli stessi principi operativi della psicologia di comunità, come la contestualizzazione dell’intervento e la condivisione con il gruppo dei risultati derivanti dall’analisi dello status quo. E proseguendo poi con la ricerca di una soluzione con la partecipazione di tutti.

L’applicazione di queste linee guida dovrebbe permettere di aggirare il problema principale di ogni intervento sui gruppi, ossia il rifiuto di qualsiasi soluzione che sembri imposta dall’esterno e non negoziata. Specialmente quando viene percepita come una soluzione elaborata su modelli teorici ed applicata tout court, sottovalutando le complessità e le particolarità della realtà su cui si interviene.

Sono anni che, nelle aziende, vengono erogati i corsi sullo sviluppo delle capacità personali. I concetti insegnati a questi corsi sono sicuramente validi, ma quello che non può essere trasmesso è la capacità di riconoscere determinate situazioni. E, conseguentemente, la capacità di reagire in modo adeguato. Questo perché, per quanto la conoscenza dell’esistenza di alcune dinamiche relazionali possa aiutare, la capacità di cogliere le sfumature comportamentali in una realtà complessa, come lo può essere un gruppo di lavoro, non è da tutti.

E’ una prerogativa dei professionisti che hanno sviluppato una sensibilità verso queste tematiche tramite lo studio e l’esperienza.

Secondo me, nessuno.

Vorrei fare un esempio, prendendo spunto dal tema della comunicazione all’interno di un progetto.

La comunicazione è un argomento piuttosto critico, in quanto il successo di un progetto è fortemente correlato all’efficacia della comunicazione. Chi ha pratica di Project Management sa che esistono degli strumenti che possono aiutare il Project Manager a strutturare e schematizzare questo aspetto. Per chi ne fosse digiuno, gestire la comunicazione di progetto significa, in estrema sintesi:

1. censire tutti gli stakeholder, ossia tutte le persone interessate al progetto,

2. sviluppare un piano delle comunicazioni, che significa dire quali saranno le comunicazioni che gireranno nel progetto, complete dell’indicazione dei mittenti e dei destinatari.

Però, la sola strutturazione della comunicazione formale non è sufficiente. Infatti, anche se fosse organizzata alla perfezione, lo sforzo potrebbe venire vanificato dai suoi aspetti informali. Perché, oltre agli aspetti formali, esistono anche quelli informali e sono predominanti.

Alla luce di questo, quale Project Manager potrebbe essere in grado di intercettare i segnali della presenza dei seguenti fenomeni relativi alla parte informale di una comunicazione, di prenderne atto e di intervenire?

1.L’interruzione della comunicazione fra due persone o due gruppi.

2. Le distorsioni del significato inevitabilmente presenti nelle interpretazioni dei messaggi.

3. Il disallineamento fra il linguaggio verbale e quello non verbale.

4. Gli squilibri relazionali fra due persone.

5. Una comunicazione fondamentalmente emotiva o conflittuale.

6. Un comportamento non adatto alla situazione ed al ruolo.

7. Una (mal)celata mancanza di cooperazione.

Esattamente come il gruppo di lavoro spesso si arricchisce di esperti di vario tipo (il legale, il contabile, il commerciale), così dovrebbe dotarsi di chi questi segnali è in grado di coglierli.

Secondo me, sì.

Zani, Bruna, Psicologia di comunità. Prospettive, idee, metodi, Carocci Editore, ISBN: 9788843063253

https://www.springer.com/series/10101

E’ tempo di cambiamenti

Che se ne fa il Project Management di uno psicologo?
Bella domanda, anche perché di solito la pongo con i termini scambiati.
La rosa di risposte è piuttosto ampia e cercherò di fare una panoramica.

e perché il Project Management avrebbe bisogno di uno psicologo?

I contesti in cui viviamo cambiano velocemente e, con essi, le aziende. Le aziende di una volta erano molto statiche, ma negli ultimi anni il loro adeguamento al contesto è diventato imprescindibile. Questo fa sorgere nuove necessità che si concretizzano con i cambiamenti organizzativi. I cambiamenti possono essere solo strutturali, come ad esempio la trasformazione da una rigida matrice organizzativa ad una più flessibile, oppure riguardare, in modo più generale, i principi di funzionamento dell’azienda. E richiedere, ad esempio, l’introduzione di un uso più esteso della delega delle responsabilità, di una rivisitazione del sistema di comando e controllo, di una riduzione della lunghezza della linea gerarchica, di una leadership sapiente e non improvvisata.

Le aziende cambiano e richiedono adeguamenti, da realizzare tramite i processi di cambiamento, che, a loro volta, sono pieni di rischi e possono fallire. Uno dei motivi più diffusi di questo fallimento è l’incapacità dei responsabili del cambiamento di instaurare una relazione adeguata con i principali destinatari di questi interventi.

Una soluzione a questo problema potrebbe essere l’organizzazione del lavoro in progetti, in quanto è un tipo di organizzazione che offre i mezzi per integrare le persone nei processi di cambiamento, garantendo un’elevata flessibilità e un alto livello di attenzione verso i risultati.

…e gli psicologi?

Anche solo per quanto appena detto, secondo me la capacità di integrare persone e processi dovrebbe rendere l’organizzazione in progetti un argomento di interesse per la psicologia applicata.

Ma andiamo avanti

Cos’è un progetto? Per non ripetere ciò che ho già scritto in precedenti articoli ne fornisco un’altra possibile definizione: l’organizzazione, la formalizzazione e la realizzazione di tutto quello che serve per effettuare un cambiamento. E con, in estrema sintesi, le seguenti caratteristiche: la presenza di obiettivi chiari in termini di risultato, di tempi di realizzazione e di costi da sostenere; la chiarezza dei ruoli e delle responsabilità; la consapevolezza della presenza di risorse limitate.

Però un progetto non è solo un insieme di passi e di atti formali. Può esserlo all’inizio, ma quando entrano le persone tutto cambia.

Pensa un attimo ai progetti di cambiamento complessi, ossia ai progetti che coinvolgono diverse organizzazioni, diversi processi di produzione e, quindi, un alto numero di persone. In questo tipo di progetti è fondamentale che le persone cooperino e siano coese nel prefigurarsi l’obiettivo e nel raggiungerlo.

E per ottenere l’accettazione di un progetto complesso, è essenziale che i responsabili affrontino e risolvano i conflitti e le resistenze, gestendoli nell’ottica del risultato e delle risorse disponibili. E che si occupino di conciliare gli interessi, le aspettative e le aspirazioni di tutti gli attori coinvolti. Come esempio concreto puoi pensare ad una fusione fra due società, che comporta grandi cambiamenti per le divisioni delle due organizzazioni. Questo tipo di progetto può essere molto rischioso ed è spesso associato a timori e incertezze da parte dei dipendenti delle società interessate. Ecco perché in tali progetti sono richieste, ai principali fautori del cambiamento, competenze sociali e di leadership altamente sviluppate.

Ci sono anche altri aspetti usuali che i responsabili del cambiamento dovrebbero essere in grado di riconoscere e gestire e sono quelli correlati alla presenza del gruppo di progetto. Il gruppo deve lavorare sotto la pressione del tempo e dei costi, deve affrontare l’incertezza e la gestione degli inconvenienti, la dipendenza da altri gruppi, le conseguenze dell’accesso limitato alle risorse o alle competenze, e così via.

…e gli psicologi?

E’ inutile sottolineare che, quanto appena detto, rientra nei fenomeni psicologici di competenza dello psicologo e della psicologia del lavoro.

Ma come potrebbe inserirsi lo psicologo nella gestione dei progetti?

Sfruttando l’evoluzione naturale delle aziende verso i mercati globalizzati, che le spinge a dotarsi di team multidisciplinari di esperti per affrontare una realtà sfidante e complessa. E anche per raggiungere un livello di efficienza e di qualità più elevato.

Però c’è un’altra domanda ti dovresti porre, se sei una/un consulente nell’ambito della psicologia del lavoro: saresti in grado di entrare in azienda e di sostenere un ruolo che ti potrebbe portare ad indirizzare decisioni per ottenere il meglio da un progetto? Hai le conoscenze necessarie per farlo?

Questi che seguono sono solo alcuni dei temi che ti potresti trovare ad affrontare durante il ciclo di vita di un progetto, ovviamente insieme agli altri esperti:

Cosa posso fare per trovare i collaboratori idonei per il progetto pianificato?
Come preparo queste persone per il progetto?
Siamo in grado di raggiungere traguardi realistici?
Quali suggerimenti potrei dare al capo progetto che si trova a gestire persone più esperte ed anziane?
Come si può garantire il necessario impegno dei membri del progetto, ed evitare crisi e conflitti?
Cosa si può fare, a livello oggettivo, per garantire l’avanzamento del progetto?
Quali sono i criteri per soddisfare i requisiti di qualità dei processi e del risultato del progetto?
E qual è il compito del capo progetto in tutto questo?

Adesso la domanda finale per te: sei in grado di immaginarti un contesto per ognuna di queste domande?

Corso FAD asincrono per il management sanitario

Viste le continue richieste di cambiamento che giungono alle aziende sanitarie, specialmente quelle pubbliche, sia dagli utenti delle strutture stesse che dal contesto, ho creduto opportuno pubblicare un corso che consenta l’acquisizione di competenze manageriali da parte del personale sanitario.

Magari si sta già facendo, ma così, per dare un piccolo contributo…

E’ opinione diffusa che tali competenze debbano appartenere solo alle persone che vengono chiamate appositamente per ricoprire ruoli di consulenza o dirigenziali all’interno delle strutture sanitarie. Queste persone sono professionisti generalmente provenienti da aziende private, formatisi anche in contesti non sanitari.

Corso FAD asincrona di gestione dei progetti per il management sanitario

Personalmente credo che per rendere le aziende sanitarie, specialmente quelle pubbliche, realmente competitive, ci sia bisogno della presenza di competenze manageriali a tutti i livelli della struttura organizzativa.

E che queste debbano venire acquisite dalle persone già operanti all’interno delle aziende.

Questo perché penso che sia fondamentale integrare le conoscenze di tipo manageriale, che sono trasversali a tutti i campi, con le competenze specifiche relative al mondo della sanità e alle sue dinamiche.

Queste conoscenze, distribuite su tutti i livelli e ruoli, dovrebbero essere sufficienti per consentire all’azienda una gestione consapevole della sua complessa realtà.

E per avviare la sua trasformazione verso un’organizzazione più efficace ed efficiente, tramite l’attuazione di opportuni progetti di cambiamento.

Il corso da me pubblicato è focalizzato solo su una parte delle competenze manageriali ed è relativo allo sviluppo della capacità di gestire i progetti di cambiamento.

Non pensare, però, che questo sia riduttivo: di fatto le conoscenze che fanno capo alla gestione dei progetti, o project management, sono una parte decisamente ampia delle competenze tipiche di un profilo manageriale.

Il corso si focalizza su alcuni concetti che rientrano nelle competenze di base di una figura manageriale.

Fra queste possiamo trovare la capacità di

  • risolvere i problemi e di far fronte agli imprevisti
  • ottimizzare l’uso delle risorse dell’organizzazione
  • attuare servizi con un adeguato livello di qualità
  • dare un proprio competente contributo all’ideazione di nuovi obiettivi
  • elaborare proposte di progetti di cambiamento complete e corrette
  • curare l’aspetto comunicativo.

Senza dimenticare tutto ciò che riguarda gli strumenti da utilizzare, dato che a un/una manager è richiesto di avere dimestichezza con gli aspetti prettamente tecnici di un progetto, come la rendicontazione degli avanzamenti.

Il corso cerca anche di sviluppare la capacità di comprendere appieno il proprio ruolo, attitudine necessaria sia per relazionarsi correttamente con il gruppo di lavoro sia per controllare i fornitori.

Un altro aspetto curato nel corso è quello del linguaggio, perché essere manager significa anche acquisire correttamente il linguaggio adeguato, che consenta di dialogare con il gruppo di lavoro, spesso multidisciplinare. Si tratta del linguaggio della tecnologia, non molto familiare ai più, ma che ormai costituisce una competenza trasversale imprescindibile.

In sintesi, il corso ti permetterà di aumentare la familiarità con alcuni concetti, che ti porteranno a ridurre l’incertezza e la pressione percepita nella gestione dei progetti.

Queste conoscenze ti consentiranno di aumentare le probabilità che un progetto abbia successo, fornendoti la capacità di reagire alla continua variazione dei contesti interni ed esterni all’azienda sanitaria.

NON E’ PIU’ POSSIBILE ISCRIVERSI A QUESTO CORSO.

La psicologia applicata ai processi organizzativi

Esistono diversi punti di contatto fra la psicologia e le organizzazioni: gli psicologi entrano nella selezione e nella gestione del personale; sono i protagonisti nella formazione del personale, tramite corsi che ruotano soprattutto intorno al tema della crescita personale; sono attori necessari nella progettazione delle interfacce fra le persone ed i sistemi. Oppure nella trasformazione dei processi di produzione.

Eccetera eccetera.

Perché la psicologia è come il bianco, va un po’ su tutto.

Al netto delle resistenze e degli ostacoli posti da chi le organizzazioni le gestisce e ne determina la direzione operativa.

Perché è evidente a tutti che le sopra riportate affermazioni non rispecchiano la realtà dei fatti.

psicologia applicata processi organizzativi

Ma supponiamo, per un momento, di vivere in un mondo dove i pregiudizi verso la psicologia e gli psicologi non esistano, un mondo dove ogni ruolo venga assegnato alla figura più competente per svolgere quella mansione.

E un mondo dove le organizzazioni abbiano a disposizione le risorse economiche per strutturarsi al meglio. Perché, diciamocelo, esiste anche questo ostacolo, sarebbe poco realistico dimenticarselo.

In questo mondo ideale, cosa si potrebbe pensare di fare per le organizzazioni?

Lavoro da più di 30 anni a stretto contatto con organizzazioni di vario tipo, nelle quali ho ricoperto diverse posizioni, anche quella di project manager; questo, negli anni, ha significato, fra le altre cose: partecipare alle riunioni, determinare gli obiettivi, stendere le pianificazioni, gestire le scadenze, riflettere sui costi.

Oltre alle…

pause caffè, relazioni formali ed informali, successi e fallimenti, formazione delle persone, addii e nuovi arrivi, problemi risolti e problemi ignorati, una comunicazione fitta fitta…

Per occuparmi di tutto questo ho dovuto mettere in campo il mio grosso bagaglio di esperienza e qualche metodologia, acquisita nel tempo, sulla gestione dei progetti. Per fare un esempio, con queste competenze sono stata in grado di pianificare il lavoro dei gruppi a me assegnati, che, essenzialmente, significa questo: data la lista di attività necessarie per realizzare il progetto del momento, ognuna con la sua priorità e la sua durata, metterle in fila; il risultato è una bella pianificazione molto pulita e molto razionale.

Dopo, e sottolineo solo dopo, mi sentivo legittimata ad assegnare le attività alle persone. Espletato anche questo compito, verrebbe naturale pensare che il mio solo obbligo, da quel momento in poi, fosse quello di controllare gli avanzamenti del progetto, comodamente seduta sulla sediola della mia scrivania.

Un bel modo di vivere.

E se fosse sopraggiunto un problema? Oh, che bello, un pizzico di emozione in quella vita tranquilla: un problemone da risolvere velocemente con una o due riunioni, all’insegna dei toni cordiali e dei grandi sorrisi.

Ma allora, perché se mi giro e guardo i miei anni passati in azienda, vedo solo caos?

Perché la bella pianificazione, pulita e razionale, già si smontava nel tentativo di assegnare le attività alle persone. E le cose non miglioravano durante l’avanzamento del progetto…

Partiamo da un presupposto: la persona è l’elemento imprescindibile per realizzare quasi ogni cosa che abbia bisogno di adattamento, creatività, coscienza, capacità decisionale, emozioni.

Enormi capacità che sono di grande aiuto se indirizzate correttamente.

Il problema è che le metodologie che insegnano a gestire i progetti difficilmente parlano delle persone. Che, purtroppo per i metodi, costituiscono il fattore principale nella realizzazione dei progetti. E così variabile e determinante da essere in grado di rendere inadeguato il metodo.

Di quegli anni ricordo che mi frullava continuamente in testa una richiesta: “Voglio un esperto di esseri umani, che si sieda qui vicino a me, alle riunioni, alla mia scrivania, che ascolti le mie telefonate e che mi aiuti a dare un senso a quello che sto passando”.

Necessitavo di un esperto che mi potesse aiutare a decifrare l’intricato mondo delle dinamiche relazionali.

Questo era il macigno che mi pesava addosso.

Però non pensare che aspirassi alla realizzazione di un ideale, del tipo: come potrei fare per costruire un gruppo coeso e coinvolgente, dove tutti possano esprimersi al meglio?

No. Avrei solo voluto che qualcuno mi spiegasse come gestire l’immensa variabilità di risposte comportamentali che si possono ottenere dalle diverse persone nelle diverse situazioni.

Perché per questi problemi, abbiamo capito, bisogna contare solo sulle proprie risorse; ma se queste risorse non le avessi, o se fossero momentaneamente indisponibili in quanto troppo pressata, strattonata o coinvolta per essere obiettiva?

Perché 5, 6, 10, 50 persone, ognuna con la propria professionalità e le proprie legittime aspirazioni, portano in azienda 5, 6, 10, 50 valori personali, convinzioni, obiettivi, speranze, emozioni, temperamenti, modi di scegliere e giudicare. Tutti, indipendentemente dal ruolo.

Legittime ed auspicabili differenze individuali che si trovano ad esprimersi in uno spazio ridotto, come può esserlo un gruppo di lavoro.

Questa è la realtà delle cose.

L’esperto di esseri umani mi avrebbe dovuta aiutare a capire cosa stesse succedendo, cosa stavo sbagliando e come risolvere.

Non avendolo a disposizione, ho deciso di studiare per avviarmi verso questa professione.

E, nel leggere qua e là, mi sono imbattuta in quella che ho tradotto come “psicologia di processo”, che assegna allo psicologo il ruolo di esperto di esseri umani nei processi di realizzazione dei progetti.

Certo, è solo un’opinione, ma perché no?

Di seguto il testo che sto usando come riferimento:

Wastian, Rosenstiel, West, Braumandl. Applied Psychology for Project Managers. Springer Berlin Heidelberg.

https://www.springer.com/series/10101

Questo è solo il primo articolo che pubblicherò sul tema, che mi sembra estremamente importante per non essere trattato.

Se qualcuno fosse particolarmente interessato a questa tematica, può scrivermi nella sezione Contatti o nei commenti qui sotto.

E sul finire dell’anno…

Vi auguro Buone Feste ed un sereno 2022.

Buone Feste ed un sereno 2022

Colgo l’occasione per riportare un passaggio che a me piace molto, estratto dal libro di Tomas Navarro “Kintsukuroi – l’arte giapponese di curare le ferite dell’anima“.

Il brano parla della realizzazione di una ciotola in ceramica da parte di Sokei, allievo di Chojiro, uno dei migliori ceramisti di Kyoto. Questo compito Sokei lo esegue con tutto l’amore, la dedizione e la passione di cui è capace ma, subito dopo la cottura, la bellissima ciotola gli sfugge di mano e cade in terra, rompendosi in sei pezzi.

Sokei mise da parte le pinze di ferro e si inginocchiò accanto ai cocci, in silenzio, con un’espressione di incredulità sul volto. Le mani continuavano a tremare, dagli occhi cominciarono a sgorgare lacrime. Che vita effimera aveva avuto la sua creazione. Finché una mano non gli si posò con delicatezza sulla spalla.

«Non piangere, Sokei» gli disse Chojiro.

«Ma è la mia vita. Come posso non piangere?» rispose l’allievo.

«Fai bene a dedicare tutta la tua vita e la tua passione alla tua opera, però la ceramica è bella e fragile, proprio come la vita. La ceramica e la vita possono rompersi in mille pezzi, ma non per questo dobbiamo smettere di vivere intensamente, di lavorare con impegno o di riporre nella nostra esistenza le nostre speranze. Quello che dobbiamo fare non è evitare di vivere, ma imparare a ricomporci dopo le avversità.

Raccogli i cocci, Sokei, è arrivato il momento di aggiustare le tue illusioni. Ciò che è rotto può essere ricomposto e, quando lo farai, non cercare di nascondere la sua apparente fragilità giacché si è trasformata ora in una forza manifesta. Caro Sokei, è arrivato il momento che ti spieghi una nuova tecnica, l’arte ancestrale del kintsukuroi, perché tu possa ricomporre la tua vita, le tue illusioni e il tuo lavoro. Vai a prendere l’oro che custodisco nella cassetta sull’ultimo scaffale.»

Di nuovo Buone Feste ed un sereno 2022!

Lunedì 6 dicembre on air – post produzione

Di sotto trovi il link al podcast di un altro mio intervento, a Rainbow Diversamente Radio, ospite della dott.ssa Roberta Zunno, nel programma Succederà. In questo intervento abbiamo di nuovo parlato, piuttosto caparbiamente, dell’importanza di acquisire le conoscenze e le capacità necessarie per una buona gestione dei progetti anche da parte di chi opera nel Terzo Settore.

Locandina di Rainbow Diversamente Radio

Perché gestire bene i progetti vuol dire gestire bene i fondi che ci vengono affidati e come dice Roberta: “per mettere in atto anche progettazioni partecipate, ossia collaborazioni con enti, altre organizzazioni o anche le persone stesse, che ci permettano di raggiungere il nostro obiettivo del benessere psicologico sul territorio e di ottimizzare le nostre risorse; quindi di realizzare le nostre idee”; e anche “per gestire i progetti in modo efficace ed efficiente, seguendo una precisa metodologia dei gestione dei progetti, per aumentare la probabilità di raggiungere, in tempo e con successo, gli obiettivi”.

Il mio intervento ha riguardato un esempio di applicazione del project management all’organizzazione di un viaggio. La meta? La leggendaria città di Samarcanda. Ho illustrato un parallelismo fra le attività che normalmente si fanno per organizzare un viaggio e quelle presenti nella normale gestione di un progetto. Vi accorgerete che spesso non ci si occupa di aspetti che invece sono importanti.

Questo è il link del podcast completo.

Buon ascolto!

Intervento precedente